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La crisi, le proposte di riforma, gli scenari: l’UE al bivio? | Parte I

“Uniti nella diversità”, questo il motto dell’Unione Europea. Una constatazione di fatto ma anche una chiara visione politica, per indicare che gli Europei, attraverso di essa, possono cooperare per raggiungere stabilità, pace, sviluppo sociale e prosperità economica, valorizzando allo stesso tempo la cultura, la storia, le tradizioni, le lingue dei popoli che entro i confini d’Europa vivono da millenni. Eppure, negli ultimi 10 anni le solide basi sulle quali era stata fondata l’UE hanno subito delle dure scosse e presentano, oggi, delle fratture evidenti che obbligano ad una seria ed attenta riflessione sul futuro che ci attende.

Il Parlamento europeo è stato a lungo caratterizzato dall’alternanza “al potere” tra il Partito popolare europeo (Ppe) del centro-destra e i Socialisti e Democratici (S&D) del centro-sinistra, che hanno garantito una certa comunione di intenti e di visione in merito al processo di integrazione. Queste due formazioni, fortemente garantiste rispetto all’attuale assetto, hanno dunque impresso un chiaro segno all’azione delle istituzioni comunitarie, conquistando uno spazio sempre più grande per le politiche europee, sia sul piano sostanziale (ossia rispetto all’accrescimento costante delle materie di competenza sovranazionale), sia a livello di opinione pubblica, lavorando per avvicinare i cittadini degli Stati membri alle dinamiche di Bruxelles.

Questo ordine, tuttavia, già messo parzialmente in discussione nel 2014, è stato stravolto dalla Brexit⁽[1]⁾ e dal risultato delle elezioni del 2019.

Il ricorso del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord al meccanismo previsto dall’art. 50 del Trattato di Lisbona ha, per la prima volta, dimostrato che l’Unione Europea non è un dogma indiscutibile, che l’appartenenza all’UE non è fatto irreversibile⁽[2]⁾. La stabilità che i Trattati europei avevano dimostrato in oltre 60 anni, nel 2016 viene irrimediabilmente messa in discussione dalla scelta libera e consapevole del Popolo britannico. Non è il Governo di Londra che decide di abbandonare l’UE, è il Popolo che ha scelto attraverso un referendum, ormai diventato storico. Agli occhi di molti cittadini europei, oggi il Trattato di Lisbona non appare più come la Carta suprema di un Super-Stato ma come un semplice accordo internazionale, che come tale può essere denunciato unilateralmente, in qualunque momento, seppur con procedure molto lunghe e complesse.  

Nel 2019, altresì, i risultati delle urne hanno portato ad una fase di profonda trasformazione. La crisi che ha investito le forze popolari e socialiste ha lasciato il posto, in molti Stati membri, al consolidamento dei partiti cosiddetti sovranisti. Seppur con delle diversità evidenti da Paese a Paese, in linea generale si può dire che il sovranismo è la rivendicazione del primato della sovranità nazionale contro la cessione di potere alle istituzioni sovranazionali.  La politica dei partiti sovranisti è, in tutto e per tutto, un appello al popolo sovrano per una riappropriazione della sovranità nazionale, ossia della politica economica, finanziaria e monetaria da un lato e del primato dell’identità e della cultura nazionale⁽[3]⁾ dall’altro. Le posizioni dei partiti “euroscettici” hanno trovato diritto di cittadinanza prima nei governi nazionali (si pensi a Fidesz in Ungheria, al PIS in Polonia, alla Lega e Fratelli d’Italia in Italia) e poi nei gruppi europei, in particolare all’interno di ECR e di ID, riportando nel dibattito sovranazionale alcune vecchie suggestioni, come ad esempio le teorie confederaliste.

Da cosa nasce questa ondata di sfiducia nei confronti delle istituzioni europee? Certamente dall’incapacità dell’attuale governance dell’Unione Europea di saper fronteggiare le profonde crisi che hanno caratterizzato il mondo, dagli attentati alle Torri Gemelle ad oggi. Fino agli anni ’90, infatti, l’UE era stata la Patria di tutti i Popoli liberi, il sogno di unità delle genti d’Europa oltre il filo spinato e i carri armati sovietici che militarmente dominavano gli Stati del Patto di Varsavia. «Oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire Ich bin ein Berliner», ebbe a dire il Presidente degli Stati Uniti d’America J.F. Kennedy in visita in Germania, allora divisa in due blocchi. L’unione dell’Europa occidentale rappresentava dunque pace, stabilità, libertà, prosperità economica; il comunismo rappresentava l’oppressione, la povertà, la precarietà della vita umana priva di diritti e tutele. Le Comunità Europee avevano un senso nella chiara appartenenza all’alleanza atlantica e al mondo libero, nella definizione di una unione di Popoli che stavano giorno dopo giorno ricostruendo la propria credibilità politica e la propria indipendenza economica, sopra le macerie della Seconda Guerra Mondiale.

 

[1] Per un approfondimento sulla Brexit, cfr. F. SAVASTANO, Brexit: un’analisi del voto, in Federalismi.it, 2016
[2] Sui limiti e le ambiguità dell’attuale disciplina sul recesso, cfr. M.E. BARTOLINI, La disciplina del recesso dall’Unione europea: una tensione mai sopita tra spinte ‘costituzionaliste’ e resistenze ‘internazionaliste’, Rivista AIC, 2016
[3] H. KRIESI, The Populist Challenge, in “Western European Politics”, vol. 37, 2014