La riforma dello sport è stata teatro di uno scontro istituzionale a causa delle innegabili limitazioni che poneva all’autonomia delle istituzioni sportive. Questo scontro è stato risolto nell’ultimo giorno di vita del governo dopo forti pressioni del CIO che ha dovuto minacciare di far partecipare i nostri atleti alle Olimpiadi di Tokio senza bandiera e inno prima di veder cancellate quelle norme che rappresentavano una palese violazione della Carta Olimpica.
Tuttavia questa riforma presenta molti altri aspetti controversi che se entrassero in vigore definitivamente segnerebbero la fine per buona parte delle società sportive italiane già profondamente colpite dalle chiusure anticontagio imposte dal Governo.
All’art. 25 del D. Lgs. 36/2021, per esempio, il Governo ha previsto la costituzione del “lavoratore sportivo”.
La volontà del legislatore era quella di garantire più tutele e garanzie per i lavoratori del mondo dello sport. Un intento certamente condivisibile, purtroppo la realtà dei fatti è ben diversa dalle belle parole.
Oggi esistono tre categorie di operatori sportivi: i lavoratori subordinati, i lavoratori autonomi con partita iva e i collaboratori sportivi.
I lavoratori sportivi subordinati hanno tutti i diritti derivanti dalla loro condizione (orari di lavoro, ferie, contributi pagati, retribuzione fissata dal CCNL, divieto di licenziamento ingiustificato, in alcuni casi anche norme sul licenziamento collettivo e sulla cassa integrazione); i numerosi lavoratori autonomi sportivi che hanno scelto in accordo con i propri committenti di regolare i loro rapporti secondo criteri differenti dalla prima categoria versano regolarmente contributi e imposte. L’ultima categoria, quella dei collaboratori sportivi, rappresenta il gruppo sociale più controverso ed eterogeneo riassumibile in quattro sottocategorie: giovani studenti che grazie alla loro passione sportiva ricercano un’autonomia economica dai propri genitori, dipendenti pubblici e privati che dedicano parte del loro tempo libero alla passione per l’insegnamento di uno sport, sportivi che dedicano parte del proprio tempo libero (non a tempo pieno) alle attività sportive organizzate in società di varie dimensioni e, last but not least, lavoratori sportivi che dedicano la loro intera vita professionale allo sport operando in piccole o medie società che non posso permettersi di sostenere i costi di assunzione.
Lo Stato ha aiutato, nell’ottica della sussidiarietà, tutte queste sottocategorie e le società sportive creando la figura dei collaboratori sportivi. Tali operatori non sono assimilabili a lavoratori subordinati e i loro redditi sono qualificati come redditi diversi non tassabili fino alla somma annua di Euro 10.000. Tuttavia oltre questa somma si applica una decurtazione a titolo d’imposta pari al 23% senza diritto a detrazioni o deduzioni ulteriori (una flat tax insomma) e addirittura oltre i 30.658,28 euro annui possono accumularsi con altri redditi ed essere ulteriormente tassate secondo la relativa aliquota marginale raggiunta. Insomma un regime di favore solo per redditi molto bassi a fronte di un grande risparmio in burocrazia e in contribuzione per le società sportive, tutto ciò a grande vantaggio dei cittadini utenti che beneficiano di servizi a costi accessibili.
Il vero problema di questo sistema è la mancanza di tutele pensionistiche per i collaboratori sportivi. E su questo punto si sarebbe dovuta concentrare la riforma, sforzandosi di trovare una soluzione equa e di qualità. Invece il Governo si è lanciato nell’individuazione di una “nuova” figura che avrà due contemporanei effetti negativi: ridurre (e di molto) le tutele per gli attuali titolari di contratti di lavoro subordinato sportivo e aumentare a dismisura i costi di gestione per le piccole società che dovranno o chiudere o aumentare i costi d’iscrizione dei propri soci per poter far fronte a questa ennesima rapina di Stato mascherata da riforma.
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