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Politiche sociali e benessere: il social investment!

Dalla parabola delle politiche sociali degli ultimi vent’anni si può desu-mere un insegnamento importante: ai crescenti squilibri delle società occidentali contemporanee non è possibile rimediare senza interventi di regolazione che contrastino «alla fonte» la produzione di disugua-glianze. La continua crescita delle disuguaglianze (sia dei redditi che dei patrimoni), l’inversione dei processi di mobilità sociale, l’aggravamento dei divari mostrano che approcci fondati sulla centralità delle politiche cosiddette «attive», nonostante possano marginalmente arginare le peg-giori derive di una competizione basata sulla riduzione dei livelli salariali e della qualità del lavoro, non riescono a incidere nelle dinamiche di produzione delle disuguaglianze e delle povertà, né ad assicurare stabi-lità alle economie nazionali.

I regimi di welfare orientati al sostegno della competitività prendono in conto la pressione competitiva del capitalismo contemporaneo, ma trascurano alcuni suoi connotati strutturali, sostenuti da tra-sformazioni istituzionali: l’orientamento degli attori economici all’accu-mulazione finanziaria, la tendenza a interpretare l’azione economica in chiave breve periodistica, l’esasperata ricerca della massimizzazione del rendimento del capitale, la tendenza a esternalizzarne i costi verso i la-voratori, i consumatori e gli attori più deboli delle catene del valore.

Se non si contrastano queste tendenze, il compito delle politiche sociali sarà sempre meno agevole. Gli approcci orientati al sostegno della competitività assumono che il mercato del lavoro sia uno spazio sempre più impegnativo, nel quale tuttavia è possibile prosperare, a condizione di disporre di sufficienti risorse.

Presumono inoltre che la perdita di posti di lavoro a media e bassa qualificazione sia compensata dall’aumento di opportunità occu-pazionali per il personale più qualificato, e che in questo quadro i lavo-ratori manifestino una capacità di «convivere» più o meno serenamente con l’instabilità occupazionale, sviluppando spazi esistenziali e relazio-nali intorno all’inesausta costruzione di opportunità di lavoro.

 Il declino dei livelli retributivi, tuttavia, è un processo in atto dalla seconda metà degli anni Ottanta, connesso alla progressiva perdita di potere contrat-tuale dei lavoratori, e la precarizzazione dei rapporti di lavoro è una tendenza che si è radicata, parallelamente, nella cultura politica neo-riformista in tutto l’Occidente, parallelamente alle istanze di incre-mento di redditività espresse dalle imprese.

Il capitalismo contempora-neo segue, di preferenza, strategie di accumulazione finanziaria. Non solo aumenta costantemente il volume delle transazioni finanziarie rispetto alle attività produttive, ma le stesse grandi imprese non finanzia-rie perseguono in maniera sempre più intensa strategie di accumulazione finanziaria: generare utili finanziari, privilegiare investimenti finanziari rispetto a investimenti tecnico-produttivi, e soprattutto orientarsi a una concezione gestionale fondata sul principio di massimizza-zione del valore per gli azionisti.

In questo quadro, un innalzamento dei livelli di istruzione e formazione può evitare gli aspetti deteriori della competizione per la sopravvivenza nel capitalismo globale.