Dopo la vittoria agli Europei di calcio c'è una nuova sfida per l’Italia e questa – rispetto a quella ben più goliardica del campo da calcio - ha bisogno di essere condotta con energia, forza e determinazione: è quella delle politiche per il lavoro da varare dopo lo sblocco dei licenziamenti dello scorso 30 giugno, nonostante la pandemia sia ancora in corso.
Per scongiurare una nuova crisi economica e sociale, dal momento che la situazione dei contagi non accenna a migliorare e il rischio di un nuovo stop alle attività produttive è nell'aria, è importante, in questa fase così delicata che stiamo attraversando, prevenire attraverso azioni immediate e condivise di straordinaria importanza, per rispondere ai cambiamenti del mondo del lavoro e del settore delle professioni. Una risposta che, purtroppo per noi, appare ancora fin troppo lontana e difficile da raggiungere.
Agli ultimi due governi (Conte II e Draghi) vanno addossate responsabilità di rilievo in questo ambito: nei 16 mesi in cui i licenziamenti sono stati bloccati - scelta necessaria e unica nel suo genere vista la situazione di crisi economica e sociale, nazionale e globale - non c’è stata al contempo una ricerca di soluzioni ad hoc per ricollocare tutti i lavoratori sofferenti a causa della pandemia e della conseguente perdita di occupazione. I cassintegrati, ad esempio, non hanno avuto alcuna formazione per venir riqualificati, né sono stati varati strumenti specifici per traghettare i lavoratori che non hanno più il proprio lavoro verso una nuova occupazione. Due fattori, questi, ai quali si è aggiunta anche l’incapacità cronica e gestionale del Ministero dello Sviluppo Economico che non riesce più a far fronte alle numerose vertenze, limitandosi a organizzare tavoli tecnici su temi di rilevanza mediatica il cui unico scopo sembra essere quello di strizzare l'occhio alle telecamere; i ministri che si sono succeduti negli ultimi dieci anni, infatti, non sono mai riusciti (né si sono mai impegnati, diciamolo) a elaborare politiche concrete di sviluppo e di reindustrializzazione del Paese e dei suoi lavoratori. Gli italiani, dunque, viaggiano ancora sul binario dello “arrangiarsi da soli”, disciplina di cui sono i campioni indiscussi vista la cronica mancanza di riforme strutturali e sociali, utili soprattutto al mercato del lavoro e alla necessaria transizione tecnologica ed energetica che aspettiamo, da anni, come la manna dal cielo.
Il premier Draghi rassicura urbi et orbi: la ripresa economica c'è e sarà ancora più evidente nei mesi a venire; nel settore manifatturiero, ad esempio, guarirà ogni tensione sociale ed economica. Ma è più facile a dirsi, e il percorso non sembra così facile: per tornare ai livelli pre-covid è necessario un impegno differente, condiviso e concreto. E seppure una ripresa produttiva, negli ultimi tempi, in effetti c'è stata, non è ancora così massiccia da riportarci indietro nel tempo a quando i livelli di produttività, seppur non rosei, erano comunque accettabili. Per dirla con un motto assai famoso: “Si stava meglio quando si stava peggio” in pratica. Senza riforme, dunque, non si va “da nessuna parte”: bisogna muoversi, e farlo in fretta, sui temi della trasformazione ecologica, digitale, tecnologica e demografica, senza incappare in errori che possano catapultare di nuovo l’Italia in uno status di tensione sociale ed economica. Ché già siamo sull'orlo del precipizio.
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